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La riconquista di Mosul non risolverà i problemi dell’Iraq

tvsvizzera
Questo contenuto è stato pubblicato il 19 ottobre 2016 - 14:22
Dario Fabbri, Limes

Da due giorni è cominciata la battaglia per la riconquista di Mosul, seconda città dell'Iraq, in mano allo Stato Islamico da oltre due anni. A dispetto dei proclami trionfalistici e della propaganda governativa, le operazioni militari paiono destinate a durare a lungo, con conseguente drammatico tributo di sangue. Peraltro non basterà strappare Mosul al califfato per risolvere i problemi iracheni, dovuti alle caratteristiche strutturali del paese e non all'ideologia fondamentalista.

Alle due di lunedì mattina hanno avuto ufficialmente inizio i combattimenti per Mosul. All'attacco figura una coalizione assai eterogenea composta da circa 40 mila uomini. Tra questi: truppe dell'esercito regolare iracheno; peshmerga curdi; milizie arabo-sciite legate all'Iran; pasdaran; soldati turchi e turcomanni; militati statunitensi, britannici e francesi. Sconfiggere definitivamente i miliziani dello Stato Islamico, sebbene questi siano appena 8-10 mila, sarà impresa ardua. Mosul è in assoluto la città più importante a disposizione del califfo al-Baghdadi e qui esiste ancora buona parte del suo consenso. Già nelle prime ore dell'offensiva i jihadisti hanno mostrato la volontà di scatenare attentati suicidi e la predisposizione a combattere strada per strada. Probabilmente gli scontri dureranno per molte settimane.

Soprattutto non sarà sufficiente occupare Mosul per rendere l'Iraq una nazione compiuta. Troppo eterogenea la sua popolazione, troppo artificiale la sua struttura statale, troppo estranea l'idea occidentale di democrazia alla locale cultura politica. Due anni fa la cittadinanza di Mosul, afferente alle varie tribù sunnite della regione, ha accolto favorevolmente l'avvento dello Stato Islamico, ritenuto il male minore rispetto alla percepita tirannia del governo sciita di Baghdad. Fatto storico che smentisce la descrizione sui media occidentali delle attuali operazioni belliche come "liberazione di Mosul". Se l'autorità centrale irachena non si tramuterà in un soggetto realmente inclusivo, che rispetti le richieste della minoranza sunnita del paese, l'insurrezione è destinata a rimanere endemica. Forse nel medio periodo la bandiera nera del califfato scomparirà, ma sarà probabilmente sostituita da quella di un'altra organizzazione che persegue le stesse istanze etnico-politiche.

Per tacere dell'influenza che le numerose potenze esterne impegnate sul terreno vorranno esercitare in futuro nella regione di Mosul. Al termine della battaglia – se non durante – comincerà lo scontro tra l'autorità centrale di Baghdad, le truppe turche, quelle legate all'Iran e alle nazioni occidentali (Stati Uniti in testa) per incidere sul contesto. Con Ankara che ritiene Mosul essenziale per realizzare le proprie ambizioni neo-ottomane; con Baghdad che punta sulla campagna militare in corso per restaurare l'unità territoriale del paese e con Teheran che necessità di una vittoria per mantenere l'Iraq nella sua sfera di influenza. Mentre l'amministrazione americana si batterà per prevenire l'egemonia in loco di un solo soggetto esterno.

Divergenze che probabilmente rallenteranno la conquista di Mosul e che, in assenza di una reale svolta geopolitica, potrebbero perfino aumentare l'instabilità del paese.

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