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Gli errori di Donald Trump e la corsa alla Casa Bianca

L'ingresso degli stati nell'unione americana limes

Apparentemente la candidatura di Donald Trump è in netto ribasso a causa di dichiarazioni sessiste pronunciate undici anni fa. Il magnate newyorkese starebbe pagando soprattutto la disgustata reazione dell'opinione pubblica ai suoi commenti riguardanti le donne. In realtà Trump sconta i gravi errori tattici e strategici che, più di qualsiasi sgradevole uscita dialettica, rischiano di comprometterne la corsa verso la Casa Bianca.

Questo contenuto è stato pubblicato il 12 ottobre 2016 - 12:11
Dario Fabbri, Limes

Lo scorso venerdì è emerso un video in cui il candidato repubblicano si vantava di poter molestare impunitamente qualsiasi donna perché «famoso». L'utilizzo di espressioni triviali e offensive ha immediatamente causato l'unanime condanna dei media e del mondo politico. Numerosi membri dell'establishment repubblicano si sono dissociati dal loro nominee e alcuni lo hanno addirittura invitato a ritirarsi. Quanto accaduto sembra poter annullare le chances di vittoria dell'immobiliarista.

Se non fosse che la sua attuale sofferenza deriva da una sbagliata impostazione della campagna elettorale. E non dai recenti scandali. Perché se Trump fosse stato in vantaggio rispetto alla Clinton non avremmo assistito in queste ore al dissociarsi dei repubblicani e allo sbandamento della sua candidatura.

La scommessa con cui il repubblicano punta alla Casa Bianca consiste nell'intercettare il malumore della classe media bianca degli Stati Uniti, danneggiata dalla globalizzazione e dimenticata dalla politica mainstream, da anni maggiormente attenta alle élites e alle minoranze. Nel suo schema per ascendere alla presidenza dovrebbe bastare vincere nei cruciali Stati del Midwest, abitati soprattutto da cittadini di origine europea lontani alla politica (su tutti: Ohio, Pennsylvania, Wisconsin), e in Florida, contesto in cui vive una folta minoranza di origine cubana storicamente vicina al partito repubblicano. Di fatto le minoranze (ispanica ed afroamericana) sono state lasciate alla Clinton, mentre si è scelto di alzare i toni della disputa con l'obiettivo di attirare l'attenzione degli astensionisti.

Tuttavia per realizzare un tale obiettivo era necessario assemblare una formidabile organizzazione elettorale, così da portare alle urne il maggior numero di persone e prepararsi a rispondere agli attacchi provenienti dal campo della sfidante. Trump ha invece optato per una struttura di grandezza minore, agile e snella, rinunciando scientificamente a pareggiare i mezzi di cui dispone la Clinton. Al momento sono a libro paga del comitato elettorale trumpiano circa un 1/7 delle persone che lavorano per l'ex first lady.

Ne è derivata fin qui l'impossibilità di perseguire la strategia inziale. La penuria di organico impedisce a Trump di raggiungere gli astensionisti bianchi del Midwest, che non seguono la politica in tv, che non sono registrati per votare e che possono essere intercettati soltanto suonando il campanello delle loro case. Analogamente manca il personale per disinnescare gli scandali scovati nel passato dagli addetti della Clinton.

Così il materiale emerso sul conto del tycoon spaventa i centristi, mentre la risicata conversione degli astensionisti non consente al repubblicano di supplire ai voti garantiti alla sua avversaria da donne e minoranze etniche. Ne sono plastico esempio i sondaggi che lo mostrano in netto svantaggio proprio nel Midwest e in Florida. E che lo costringono ora a spendersi negli Stati occidentali teoricamente in bilico (Nevada, Colorado, New Mexico), abitati da una notevole minoranza ispanica che gli è mediamente ostile.

Dati e ragioni delle difficoltà di Trump, causati da una erroneo calcolo strategico e che in assenza di drastici aggiustamenti rischiano di precludergli definitivamente la strada per la Casa Bianca.

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