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La guerra, una cosa per soli uomini?

Attualmente nel mondo imperversano 27 conflitti armati. Come sempre, nella storia dell'umanità gli attori chiave sono uomini. La guerra è una prerogativa del "sesso forte"? Le donne possono cambiare la politica di sicurezza? Leandra Bias, politologa che ha fatto ricerche su autoritarismo e antifemminismo, fornisce risposte chiare.

Questo contenuto è stato pubblicato il 28 novembre 2022 - 09:25

SWI swissinfo.ch: Signora Bias, è vero il cliché secondo il quale sono soprattutto gli uomini a fare la guerra?

Leandra Bias: Le guerre sono dominate dagli uomini perché in politica essi sono sovrarappresentati e, di conseguenza, nella maggior parte dei casi sono loro che decidono di fare la guerra. Inoltre, gli eserciti di tutto il mondo sono per la stragrande maggioranza formati da uomini. Nonostante ciò non si può affermare che, biologicamente parlando, la guerra sia una cosa da uomini. Si educano i ragazzi a essere più aggressivi mentre alle ragazze si preclude l'aggressività, anche in Svizzera.

Non appena le donne sono al potere anche loro fanno la guerra allo stesso modo; basti pensare alla prima ministra britannica Margaret Thatcher per le Isole Falkland, alla ministra degli esteri americana Condoleeza Rice in Iraq, a Hillary Clinton in Libia e alla cancelliera tedesca Angela Merkel in Afghanistan. Esempi che smentiscono la teoria gender?

No. Nessuna di queste donne infatti ha condotto una politica estera di stampo femminista. Non stiamo parlando di equiparazione numerica tra uomo e donna, bensì del sovvertimento delle strutture di potere. Una politica estera femminista ne terrebbe conto e abolirebbe gli organismi in cui sono presenti solo uomini o, per meglio dire, un tipo ben preciso di uomini. Al loro posto creerebbe canali e processi per integrare quelle voci che da secoli non trovano ascolto. Nella politica di sicurezza verrebbero presi in considerazione anche altri aspetti, come ad esempio i femminicidiLink esterno.

Di fatto in realtà tutte le istituzioni hanno una struttura patriarcale, risultato del sistema patriarcale in cui viviamo. Se nella politica estera globale – dalle diplomatiche e dai diplomatici fino ad arrivare al Consiglio di sicurezza dell'ONU – una volta riuscissimo a raggiungere una quota di donne pari ad almeno il 30 %, la situazione potrebbe cambiare e con essa anche la politica di sicurezza.

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In che modo agirebbero diversamente le donne che si fanno ambasciatrici di una politica estera femminista?

La politica di sicurezza è dominata dagli uomini. Non solo perché questi ultimi una volta al potere esercitano il proprio dominio, ma perché regna una mentalità maschile. Si parte quindi dal presupposto che ci si sente più sicuri quando si ha potere sugli altri. L'idea del dominio maschile porta anche all'oppressione delle donne nella società.

Dobbiamo rivedere la politica di sicurezza nel suo complesso e introdurre modi di pensare apparentemente femminili. Mi riferisco alla capacità di conciliare, all'empatia. Al fatto che quando parliamo di armi non parliamo di numeri astratti bensì di milioni di morti.

Negli ultimi vent'anni, in media le donne hanno condotto i negoziati nel 13 % dei processi di pace di una certa importanza, e di questa quota nel 6 % dei casi hanno ricoperto il ruolo di mediatrici e firmatarie. In 7 processi di pace su 10 nessuna donna è stata coinvolta in maniera determinanteLink esterno. Esistono prove empiriche che dimostrino che la partecipazione femminile ai processi di pace incide positivamente sulla risoluzione dei conflitti?

Da uno studio Link esternoè emerso che quando le donne sono coinvolte nei negoziati di pace in veste di mediatrici o firmatarie il rischio di ricadere nel conflitto diminuisce in maniera significativa, e la pace in media dura 15 anni più a lungo. A mio parere questa è una prova empirica eloquente. Un altro studio Link esternoinvece ha dimostrato che quando le donne sono coinvolte in modo significativo nei negoziati di pace vengono inclusi anche altri gruppi marginalizzati.

"Le guerre sono dominate dagli uomini perché in politica essi sono sovrarappresentati."

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La guerra in Colombia è un buon esempio: le donne hanno insistito affinché fosse loro concesso di partecipare ai negoziati di pace, anche dalla parte delle FARC. Grazie agli sforzi delle donne si è giunti a un trattato di pace considerato il più inclusivo di tutti i tempi. In esso il Governo ha riconosciuto l'importanza di rimediare alle ingiustizie di genere per garantire una pace duratura. Fu inoltre stabilito per iscritto che nelle regioni rurali occorre garantire i diritti delle donne, migliorare la partecipazione politica generale di queste ultime e proteggere i diritti delle vittime di violenze a sfondo sessuale.

Lei ha affermato che la guerra mossa dalla Russia all’Ucraina ha anche a che fare con democrazia e parità di genere. Ci spieghi meglio.

È dal 2009 almeno che Putin nei suoi discorsi parla regolarmente dei valori tradizionali russi. A suo avviso questi ultimi, promossi tra l'altro dalla Chiesa russo-ortodossa, non sarebbero per nulla conciliabili con i "valori occidentali" e andrebbero protetti. Si è venuta quindi a creare una sorta di nuova dottrina di Stato, e il femminismo è stato dipinto come un pericolo. Ci si è spinti fino al punto che nel 2013 il Consiglio di sicurezza russo, organo apicale della politica di sicurezza, dichiarò che il Paese aveva bisogno di una strategia morale per difendersi dalla propaganda femminista e dai concetti morali dell'Occidente.

Così a loro volta femminismo e giustizia di genere sono stati dichiarati qualcosa di estraneo e minaccioso.

Più tardi questa dottrina di Stato ha permesso a Putin di fare del conflitto con l'Ucraina il teatro della sua battaglia culturale con l'Occidente. Ai suoi occhi, infatti, l'Occidente perverso ha praticamente occupato l'Ucraina; secondo Putin se non si ponesse un freno a questa deriva sarebbe solo questione di qualche anno e l'ossessione gender arriverebbe anche in Russia. Così l'invasione è diventata non una guerra di aggressione ma un'operazione preventiva, e l'attacco militare vero e proprio è stato completamente sminuito. Tutto ciò è assurdo.

In questa presunta "guerra dei valori" Putin può anche contare sul sostegno di numerosi Paesi in tutto il mondo e di alcuni partiti conservatori europei. Crede che l'Europa possa avere la meglio in questa guerra ideologica?

È una domanda difficile, e per me attualmente è proprio questo il nocciolo della questione. Lei ha giustamente affermato che alcuni partiti e movimenti di destra europei stanno sposando queste idee. Ci sono anche alcuni partiti di Governo conservatori che dipingono l'ideologia gender demonizzata da Putin come una seria minaccia. A dire il vero però sarebbe importante che le personalità politiche di Governo, che sono assolutamente fondamentali per le nostre democrazie, capissero che questa narrativa va a braccetto con quella di Putin e che per noi la minaccia non è rappresentata dalla giustizia di genere e dai movimenti antirazzismo, bensì dall'erosione della democrazia. Dovrebbero inoltre rendersi conto che per il bene di quest'ultima andrebbero rafforzati i diritti umani.

Qual è il rapporto tra democrazia, parità di diritti e pace? Qual è la causa e quale l’effetto?

In passato abbiamo sempre pensato che per prima cosa dovesse venire la democratizzazione e poi, in un secondo momento, a un certo punto sarebbe arrivata la parità di diritti. Così le donne sono rimaste tagliate fuori da molte rivoluzioni. Oggi sappiamo che le rivoluzioni, cioè il rovesciamento delle autocrazie, si rivelano molto più efficaci quando le donne vi prendono parte. Uno studio che sarà pubblicato a breve mostra che più i movimenti di riforma sono inclusivi e più la probabilità di un’evoluzione democratica è maggiore. Non per niente Putin combatte il femminismo in maniera così esplicita.

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È possibile sostenere democrazia e parità di genere in altri Paesi senza commettere ingerenze negli affari interni e senza macchiarsi di imperialismo culturale?

Per prima cosa dobbiamo toglierci dalla testa l'idea che femminismo e diritti umani siano un concetto occidentale. Giustizia e femminismo sono valori universali. È pericolosissimo cadere nel relativismo culturale, ma è importante sviluppare una certa sensibilità per le dinamiche imperialistiche. Le accuse, infatti, ci vengono mosse dalle culture che abbiamo oppresso; in ogni caso però non dobbiamo assolutamente fare il gioco degli autocrati. Per questo motivo è importante rafforzare il ruolo delle persone che a livello locale difendono i diritti umani perorando la causa della parità. Nessuno meglio di loro sa come portare la giustizia nella società in cui vivono. Spetta a loro prendere in mano la situazione, noi dovremmo limitarci a offrire il nostro sostegno.

I partner internazionali che fungono da mediatori possono inoltre sottolineare a ogni piè sospinto l'importanza della partecipazione delle donne ai negoziati, appoggiare i processi paralleli della società civile femminista e farsi portatori delle richieste di quest'ultima dinanzi all’élite che conduce i negoziati.

Il rafforzamento della parità dei diritti è una delle colonne portanti della politica estera svizzera. In quest’ottica, a partire dal 2023 che cosa può e che cosa deve smuovere la Svizzera in seno al Consiglio di sicurezza dell'ONU?

Per esempio, sarebbe importante che la Svizzera offrisse alle attiviste e agli attivisti provenienti dall'Ucraina la possibilità di prendere la parola dinanzi al Consiglio di sicurezza e, in termini molto più ampi, che inserisse il tema della parità di genere nell'agenda del Consiglio di sicurezza stesso. Il Dipartimento federale degli affari esteri dovrebbe inoltre adoperarsi affinché un numero sempre maggiori di donne ricopra ruoli diplomatici. Ciò però deve avvenire concretamente. Kristina Lunz [cofondatrice del Centre for Feminist Foreign Policy, ndr] ha reso molto bene l'idea: non si tratta di far sedere le donne al tavolo, bensì di ricostruire il tavolo. E questa ovviamente è una sfida complessa.

"Dobbiamo rivedere la politica di sicurezza nel suo complesso e introdurre modi di pensare apparentemente femminili."

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Un altro ambito in cui intervenire è quello del diritto internazionale; presso la corte penale internazionale o i pubblici ministeri occorre perseguire approcci femministi: ad esempio per quanto riguarda la definizione di violenza o le modalità con cui vengono dedotte le prove nei casi di stupro o con cui sono ottenute riparazioni di guerra dopo i conflitti.

Un elemento fondamentale in questo senso sarebbero i tribunali femminili, dove le vittime di violenza sessuale possono denunciare ciò che hanno subito, essere ascoltate e quindi provare una sorta di sentimento di giustizia. Sono istituzioni in cui si crede ai racconti delle donne e dove i crimini sono riconosciuti come tali; anche se non vengono inflitte pene, la cosiddetta giustizia riparativa contribuisce in maniera significativa alla riparazione. Già questa sarebbe una trasformazione abbastanza radicale della politica di sicurezza, perlomeno per quanto riguarda la rielaborazione dei conflitti.

Articolo a cura di Marc Leutenegger

Traduzione dal tedesco di Stefano Zeni

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