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EXIT, quando un parente dice no

"Non darò mai il mio benestare qualora mia mamma decidesse di assumere il cocktail letale, perché se acconsentissi al suo suicidio assistito non mi libererei più dal rimorso". Sono le parole di Raffaella, figlia di Mariella, che a 81 anni -  pur non soffrendo di una malattia terminale - è stanca di vivere e vede in EXIT una vera via d’uscita. Mamma e figlia raccontano in un’intervista alla RSI come la scelta di rivolgersi a un’associazione che celebra il diritto di morire con dignità possa dividere una famiglia.

Questo contenuto è stato pubblicato il 19 dicembre 2016 - 16:45
Camilla Luzzani, RSI

Una controversia questa, non nuova. L’ultimo caso è quello dei fratelli Mermod, ginevrini. Claude Mermod e suo fratello, in ottobre, hanno portato EXIT in tribunale a Ginevra per impedire che Olivier, un terzo fratello 82enne, scegliesse di morire con l'accompagnamento offerto dall'associazione pur non essendo affetto da mali incurabili. Tre mesi di tempo per giungere a una decisione.

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Troppi per Olivier, che ha scelto di fare tutto da solo. Si è tolto la vitaLink esterno per evitare il rischio che una sentenza a favore dei suoi parenti legasse per sempre le mani a EXIT.

Opporsi a una simile decisione, maturata con capacità di discernimento, è un atto d'amore o una "tortura"?

I sostenitori della causa di EXIT ritengono che poter decidere autonomamente della propria vita sia una libertà fondamentale, un diritto inalienabile. Chi si oppone - come Raffaella e Claude - vuole invece riuscire a far passare il messaggio che la vita è meglio della morte a qualsiasi costo. "Preferisco essere in lotta con un fratello vivente, che in armonia con un morto", ha detto Claude alla trasmissione della RTS InfrarougeLink esterno.  "La vita è un dono che ci è stato dato e va rispettato fino all'ultimo", gli fa eco Raffaella.

La questione e tutt'altro che semplice; ciò che invece è certo è che per EXIT i guai non sono ancora finiti, perché Claude Mermod - dopo il suicidio del fratello - ha sporto denuncia contro l'associazione per omissione di soccorso (Art. 128 del Codice penale svizzero): "A Olivier non è stato proposto nessun trattamento psicoterapeutico come esige l'Accademia svizzera di scienze mediche nel caso in cui una persona richieda il suicidio assistito".

Numeri da capogiro. Il merito? Dei media

Le cifre relative alle adesioni a EXIT degli ultimi anni secondo i responsabili sono una prova di come il servizio offerto risponda a una domanda della società. "Sono sempre più numerose le persone che desiderano il nostro aiuto, perché avere il controllo sulla morte la rende un po' meno terrificante", ha spiegato ai mediaJérôme Soebel, presidente dell'associazione nella Svizzera romanda. Da tempo si è avvertita la necessità di poter controllare la vita, ricorrendo alla contraccezione, all'aborto o alla procreazione assistita e oggi le persone hanno il desiderio di poter gestire anche l'uscita dalla vita con responsabilità e indipendenza.

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Il boom delle iscrizioni  è dovuto in parte all'estensione del servizio alle persone che soffrono di patologie legate all'età, avvenuta nel 2014, ma - come ci ha spiegato per telefono il direttore di EXIT Ticino Ernesto Streit - il merito del grande successo va soprattutto ai media: "L'interesse mediatico per noi fa da catalizzatore, sia che se ne parli bene, sia che si critichi la nostra attività. Altri fattori determinanti - aggiunge Streit - sono l'invecchiamento della popolazione e la pubblicità fattaci dalle persone conosciute che scelgono il nostro servizio". Caso emblematico, in tal senso, l'accompagnamento nel 2014 del consigliere agli Stati This JennyLink esterno: "Nei giorni seguenti alla sua morte registravamo circa 1'000 nuovi iscritti al giorno".

E a chi ha paragonato EXIT a un'agenzia viaggi che non avrà mai problemi legati al dopo-vendita e che non riceve feedback dai propri clienti, Streit risponde: "Tutti i nostri accompagnatori si trovano dalle 4 alle 6 volte all'anno per discutere i casi seguiti, perciò c'è un'analisi costante che ci permette di comprendere meglio le esigenze dei nostri assistiti. Oltre a ciò ascoltiamo le valutazioni dei famigliari e con molti di loro rimaniamo in contatto anche dopo la morte del loro caro".

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Una legge da rivedere?

La legislazione svizzera in materia è una delle più liberali del mondo. Nel giugno del 2011 il Consiglio federale si è rifiutato di legiferare sull’assistenza al suicidio, rinunciando così all’adozione di una norma penale che avrebbe dato uno statuto legale alle organizzazioni come EXIT. In quell’occasione Simonetta Sommaruga, responsabile del Dipartimento federale di polizia  – intervistata da RTS -  aveva spiegato che il Governo preferiva promuovere la prevenzione e la medicina paliativa: "Il turismo della morte è molto diminuito, perché abbiamo spiegato che queste associazioni sono soggette a delle regole severe".

È vero, la legge esiste, ma c’è chi – ad oggi – ritiene ancora che l’art. 115 del Codice penale svizzero sia troppo vago.

Per la deputata socialista ginevrina, Salima Moyard, intervistata dalla redazione di Infrarouge, le direttive di EXIT dovrebbero essere inquadrate meglio e spetterebbe al Governo determinare, attraverso un dibattito democratico, questo quadro legale: "Non si possono criticare i criteri stabiliti da EXIT, perché se l'associazione ha questa libertà nel fissarli è perché non esiste a livello federale un quadro che li regoli; la regolamentazione di un tema così delicato deve essere una responsabilità collettiva e non di una singola associazione".

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