«La politica non deve influenzare il lavoro degli artisti»
Philippe Bischof, nuovo direttore della Fondazione svizzera per la cultura Pro Helvetia, parla a swissinfo.ch dell'importanza degli scambi culturali all'estero. Sottolinea le opportunità di dialogo offerte dall’arte e spiega come Pro Helvetia aiuti a sostenere progetti culturali in paesi dove essa si trova sotto pressione politica.
swissinfo.ch: Se dovesse promuovere all’estero la situazione dell'arte svizzera, come la descriverebbe?
Philippe Bischof: Attraverso la diversità, essendo questo un tratto abbastanza specifico della Svizzera, un paese con quattro lingue ufficiali dove non esiste un’unica ma molte culture svizzere. Questo è un aspetto apprezzato negli altri paesi, lo sento dire spesso.
C'è poi la questione della qualità. La Svizzera è un paese ricco con ottime accademie e una produzione artistica di alto livello. Si tratta perciò di un'arte realizzata in condizioni eccellenti con buoni fondi e infrastrutture - cosa che si riconosce facilmente. C'è anche una sorta di attitudine specifica, con un certo amore per il dettaglio, la meticolosità, come in Christoph Marthaler per quanto riguarda il teatro o Fischli & Weiss nell'arte, per fare qualche esempio.
Pro Helvetia: una rete globale
Fondata nel 1939 per promuovere creazioni culturali di interesse nazionale e internazionale, Pro HelvetiaLink esterno è diventata una fondazione pubblica dieci anni dopo. Ha sede a Zurigo ed è l'unica istituzione svizzera che promuove regolarmente l'arte e la cultura svizzera in patria e all'estero. Nel 1985 è stato fondato il Centre Culturel SuisseLink esterno a Parigi; oggi ci sono centri culturali anche a New York, San Francisco e Roma. L'anno scorso, Pro Helvetia ha sostenuto progetti in circa 100 paesi e ha uffici di collegamento in Egitto, Sudafrica, India, Russia e Cina. Per il 2018 è previsto un budget di 40,3 milioni di franchi.
End of insertionswissinfo.ch: Pensa che il panorama artistico svizzero sia diventato più internazionale, nel senso che è più difficile parlare di "arte svizzera"?
P. B.: L'arte è sempre stata un linguaggio globale ed è ciò che la rende arte. Ad esempio c’è un festival musicale che si tiene ogni anno in un bosco del canton Obvaldo dove si incontrano due paesi o regioni. Lì si scopre che lo jodel non è un genere tipico solo della Svizzera, ma lo si canta anche in Bhutan. La tecnica e la cultura sono universali. Quindi per me non si tratta di arte svizzera, ma di arte prodotta dalla o in Svizzera. Questo è ciò che finanziamo. È una differenza importante.
swissinfo.ch: Quali misure adotta affinché l’arte svizzera venga accolta all'estero?
P. B.: Il confronto con il pubblico ha luogo sia qui che all'estero, queste due cose sono inseparabili e il banco di prova è lo spettatore a casa. È nostra responsabilità non mandare gli artisti troppo presto nel mondo - vogliamo evitare il pericolo che fuori non ce la facciano. Ma se una compagnia di ballo bernese prima di esibirsi a Parigi si mette alla prova a Ginevra, le possibilità di successo sono di solito maggiori.
swissinfo.ch: È direttore di Pro Helvetia da poco più di 100 giorni. Che cosa l’affascina di questa dimensione internazionale?
P. B.: L'arte non è un prodotto a sé stante, offre piuttosto la possibilità di dialogo - e ciò richiede spazio. Più grande è l’eco di questo spazio - e il mondo è ovviamente più grande della Svizzera - tanto più interessanti sono le discussioni che possono nascere. Sia sul piano umano che politico, è una grande opportunità per le persone sperimentare un cambiamento di prospettiva su alcune questioni, o una diversa forma di espressione. La cosa affascinante è che le persone assorbono in modo differente uno stesso brano o un libro se si trovano in luoghi diversi. Ascoltare la Nona Sinfonia di Beethoven in Islanda è diverso dall'ascoltarla qui a Zurigo. Questa è una buona cosa. Mostra la diversità e la raffinatezza dell'arte in quanto tale.
swissinfo.ch: Come può Pro Helvetia mantenere un certo grado di neutralità nel sostenere progetti culturali nelle ex colonie europee, in special modo in Africa?
P. B.: Questa è una questione davvero molto importante. Innanzi tutto, quello che ci aiuta è che Pro Helvetia è una fondazione autonoma, è un'istituzione nazionale ma non ha un'agenda politica. E questo è un aspetto che molte persone e gruppi d'interesse apprezzano. Vengono da me e mi dicono: "lo preservi!”. Rappresenta una sorta di margine di discrezione per i nostri impegni. Questa è parte della risposta.
In secondo luogo, non dobbiamo mai dimenticare che questo tipo di scambio culturale è molto delicato e complesso. Ha bisogno di rispetto, ha bisogno di molto tempo e spazio, e non sempre riesce. Ma ciò che la gente conosce è l'alta reputazione di Pro Helvetia, il suo senso della qualità e questa indipendenza di cui ho parlato.
swissinfo.ch: Come reagiscono gli artisti agli approcci post-coloniali?
P. B.: L'approccio post-coloniale non è un concetto chiaramente definito, ma piuttosto una mentalità e un atteggiamento. Fondamentalmente credo che un buon programma non debba essere rigido. Tra l'altro è interessante sentire artisti di paesi post-coloniali dire: «Tutto ciò non mi interessa, voglio solo fare le mie cose». Gli artisti e gli attori dei paesi post-coloniali stanno rivendicando il diritto di «lasciateci fare quello che vogliamo fare, non vogliamo realizzare un progetto sul post-colonialismo o su cose di questo tipo quando non ne abbiamo intenzione» - e questo è un tema importante per tutti i consigli europei: non va dimenticato. Non dobbiamo imporre programmi politici al lavoro di nessun artista. Questo è il delicato equilibrio che bisogna mantenere.
swissinfo.ch: Pro Helvetia è attiva in regioni in cui le arti subiscono forti pressioni politiche. Il sostegno alle attività culturali è strettamente legato a questioni quali i diritti umani, la giustizia sociale, le minoranze, il genere e il superamento delle pratiche coloniali e post-coloniali. Questa carta dei principiLink esterno non è in contrasto con la situazione sul campo, specialmente in paesi come la Russia, la Cina, la maggior parte del mondo arabo e, non da ultimo, il Brasile?
P. B.: Abbiamo a che fare con gli individui, non con governi o amministrazioni - è molto importante ricordarlo. Quello che sosteniamo realmente sono i progetti, gli artisti, quindi davvero gli individui. E una delle cose positive del lavoro con i collaboratori locali è che conoscono le situazioni, conoscono i limiti e anche gli interstizi di libertà. Di recente ho avuto un colloquio con la responsabile del nostro ufficio a Mosca e ho avuto modo di chiederle direttamente come fosse la situazione. Lei mi ha risposto: «Guarda, so cosa è possibile e cosa no, e cerco di agire con una certa libertà tenendone in conto». Ora, è questa censura o no? Non lo è. L'importante è che possiamo sostenere ciò di cui siamo convinti all'interno di determinati quadri politici.
swissinfo.ch: Non è autocensura?
P. B.: No. Qui in Svizzera è lo stesso, anche qui ci sono alcune "regole culturali".
swissinfo.ch: Cosa sarebbe off limits in Svizzera?
P. B.: Bisogna sempre considerare il contesto. Per noi è molto importante conoscere il contesto e rispettarlo, perché non è nostra missione cambiare la situazione politica. L'Egitto è l'Egitto, dobbiamo rispettare questa cosa. È un approccio permanente, determinato e rispettoso. E forse lì gli artisti grazie al loro lavoro culturale possono aggiungere strati alle società.
swissinfo.ch: Quali sono i criteri per la scelta di un paese in cui Pro Helvetia vuole essere presente?
P. B.: La domanda semmai è: dove ci sono potenzialità di contenuti e mercati, ovvero pubblico e possibilità di distribuzione? Il primo ufficio di collegamento è stato fondato 30 anni fa al Cairo con questi criteri. Non devo giustificare l'Egitto o il Sudafrica; entrambe sono aree incredibilmente ricche culturalmente. Nel 2004, sulla base di una nuova analisi, abbiamo definito i mercati futuri: India, Russia, Cina e Brasile. Negli anni abbiamo aperto sedi anche in quei luoghi.
swissinfo.ch: Perché ci sono filiali chiuse in luoghi come Belgrado, quando c' è ancora tanto da fare?
P. B.: Non era un ufficio Pro Helvetia nel senso corrente. Ma l'esempio mostra come le priorità possano cambiare. Le relazioni artistiche tra la Svizzera e Belgrado si erano intensificate a tal punto che la nostra presenza non era più necessaria. Tuttavia, per me non si tratta solo di popolare punti nevralgici e città, ma piuttosto di costruire reti con le regioni circostanti. L’ufficio di collegamento del Cairo, ad esempio, non serve solo il Cairo, ma anche Tunisia e Libano.
«Ascoltare la Nona Sinfonia di Beethoven in Islanda è diverso dall'ascoltarla qui a Zurigo»
End of insertionswissinfo.ch: Una volta ha dichiarato che lo scambio culturale è un'opera di traduzione. Può sviluppare questo concetto in relazione alle sfide reali che deve affrontare ora a Pro Helvetia?
P. B.: In un'altra intervista mi è stato chiesto perché continuiamo a fare questi scambi culturali nell'era di Internet e ho risposto che via Internet non possiamo ancora scambiare o trasmettere incontri umani. E questa è la cultura.
Tendiamo a dimenticare che l'inglese non è l'unica lingua al mondo. Tradurre per me significa quindi rispettare realmente le diverse situazioni culturali, le situazioni locali, le lingue in senso stretto, ma anche nella loro accezione più ampia; per esempio, modi di comunicazione non verbali, che sono possibili solo negli incontri personali. Significa tradurre pensieri e idee da un'origine all'altra. Si tratta di tradurre da lingua a lingua, ma anche da contesto a contesto e, infine, da individuo a individuo. Senza incontri personali questo non sarebbe possibile.
C'è una frase del sociologo polacco Zygmunt Baumann che mi ha colpito: «I nastri di traduzione sembrano oggi essere sistematicamente tagliati». Non so se sia così o meno, ma dobbiamo prenderci cura dell'arte e della consapevolezza della traduzione.
swissinfo.ch: E come si rapporta con una certa trappola eurocentrica, come la maggior parte dei suoi omologhi europei?
P. B.: Direi che è difficile non essere eurocentrici se si è in Europa. Per me la sfida è ricordare sempre che agiamo all'interno di concezioni e definizioni molto diverse delle cose. Prendiamo ad esempio le arti performative. Per noi cittadini europei urbanizzati è del tutto chiaro che cosa siano. Ma quando per esempio andiamo in Nigeria, dovremmo chiederci: «Che cosa significa arti performative per gli artisti e il pubblico qui?»
swissinfo.ch: Perché?
P. B.: Tutto sta nella distinzione tra differenza e distanza. Nella teoria culturale c'è una lunga discussione sulle differenze culturali. C'è un'interessante descrizione di François Jullian [un filosofo e sinologo francese, ndr] che ha detto che si tratta più di distanza, perché differenza significa che siamo due persone diverse, ma distanza vuol dire che siamo solo in due luoghi diversi.
Tendiamo a dimenticare le distanze. Ma anche tra Basilea e Zurigo le cose non sono le stesse. Non tutti parlano la stessa lingua, hanno gli stessi desideri e sogni. Pertanto la mia preoccupazione non è se sono eurocentrico o meno, la mia preoccupazione è ciò che faccio quando vado da qualche parte come straniero, quando lascio il mio posto per essere ospite in un altro luogo. Non dovremmo mai dimenticarlo.
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