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Perché la conferenza di Parigi non sarà il fiasco che fu Copenaghen 2009

tvsvizzera

di Dario Fabbri (Limes)

Questo contenuto è stato pubblicato il 02 dicembre 2015 - 14:45

La conferenza sul cambiamento climatico in corso a Parigi (Cop21) probabilmente non produrrà un accordo soddisfacente, ma paleserà l'accresciuta consapevolezza dei governi internazionali in materia di inquinamento e di qualità della vita. Le resistenze degli americani impediranno l'approvazione di un testo legalmente vincolante, così lo scetticismo dei paesi emergenti renderà realistici soltanto obiettivi poco ambiziosi, eppure l'assise parigina non sarà il fallimento che fu Copenaghen 2009.

A dispetto della pur legittima attenzione mediatica riservata ai lavori in corso a Le Bourget, il destino di Cop21 è già stato deciso. Saranno infatti gli impegni di riduzione delle emissioni inquinanti (Intended Nationally Determined Contributions), già presentati nelle scorse settimane dalle oltre 170 nazioni partecipanti al summit, a determinare il risultato finale. In particolare gli Stati Uniti promettono di diminuire le emissioni di gas serra del 26-28% entro il 2050; l'Unione Europea del 40% entro il 2030; così la Cina, inedito assoluto, ha annunciato che entro il 2030 comincerà a ridurre il proprio apporto all'inquinamento globale e ad aumentare significativamente l'utilizzo di energia rinnovabile. Secondo calcoli delle Nazioni Unite, tali impegni cumulati dovrebbero produrre un aumento delle temperature globali di 2,7°C, più di quanto considerato sostenibile per il pianeta dai principali scienziati internazionali (2°C), ma nettamente meno di quanto stimato in assenza di un impegno fattivo da parte dei singoli governi (un innalzamento delle temperature di circa 5°C).

A frenare le ambizioni degli ambientalisti è soprattutto la resistenza dei paesi emergenti, capitanati dall'India, che ritengono l'inquinamento un effetto collaterale della loro necessaria crescita economica e i parlamentari conservatori degli Stati Uniti che non credono al cambiamento climatico. «Il poco carbone che ancora possiamo bruciare consente ai Paesi in via di sviluppo di crescere. Gli stili di vita di pochi non devono eliminare le opportunità dei tanti ancora ai primi passi della scala dello sviluppo», ha spiegato il primo ministro indiano Narendra Modi.

Allo stesso modo Obama non può accettare l'approvazione a Parigi di un vero accordo internazionale perché il Congresso Usa, a schiacciante maggioranza repubblicana, si rifiuterebbe di ratificarlo. D'altronde oltre 30 Stati americani già minacciano di adire le vie legali contro il piano domestico in materia di cambiamento climatico approvato dall'attuale amministrazione.

Tuttavia rispetto al 2009 qualcosa è cambiato. L'opinione pubblica dei paesi sviluppati, anche quella americana, è nettamente più sensibile al tema e perfino la leadership cinese, nell'ambito di un generale programma di transizione economica, è intenzionata a privilegiare la qualità di vita dei cittadini rispetto alla produttività. In sintesi: le principali potenze del pianeta, a differenza di qualche anno fa, sembrano abbracciare le istanze ecologiste per pura convinzione piuttosto che come stratagemma per limitare la crescita economica altrui. Non solo. Il progresso tecnologico ha reso la cosiddetta energia pulita nettamente più accessibile. Dal 2008 il costo di un pannello solare è diminuito dell'80%, al punto che il Bangladesh spera di diventare entro il 2020 la prima nazione "solarizzata" del mondo.

Sicché, anche se la Cop21 genererà presumibilmente soltanto promesse, a differenza che in passato, ci sono margini per essere ottimisti.

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