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Non sarà il prossimo presidente USA a salvare l’Europa

Limes

di Dario Fabbri, Limes

Questo contenuto è stato pubblicato il 09 marzo 2016 - 13:22

In tempo di elezioni americane, nelle cancellerie e nei circoli intellettuali d'Europa si discute di quale sia il candidato auspicabile. Per ragioni incentrate soprattutto su di una (presunta) corrispondenza politica o sul mero apprezzamento morale – che non pertengono all'analisi geopolitica e che inevitabilmente producono risultati tragicomici – in questa fase in molti sembrano preferire Hillary Clinton. Assai meno Donald Trump, Ted Cruz o Marco Rubio. Mentre è perfettamente evidente che, al netto di qualsiasi fraintendimento, nessuno degli aspiranti presidenti avrà la possibilità o la voglia di impedire il disfacimento dell'Europa.

Come già accaduto con Obama, confondere la politica americana con quella europea può generare grande delusione. La destra e la sinistra statunitensi non corrispondono a quelle del Vecchio Continente e, a dispetto di qualsiasi agiografica narrazione, il capo della Casa Bianca si batterà per l'esclusivo interesse del suo paese e non per il benessere dell'intera ecumene. Così è profondamente errato credere che il presidente abbia il potere di modificare motu proprio la postura della superpotenza. Giacché per produrre un tale impatto il commander-in-chief necessita del sostegno (per nulla scontato) del Congresso e degli apparati che materialmente gestiscono la politica estera. Altrimenti la strategia americana cambierebbe ogni quattro-otto anni. In formula: gli Stati Uniti sono un impero senza imperatore.

Nel caso attuale, nei prossimi anni l'approccio della superpotenza nei confronti dell'Europa oscillerà tra l'indifferenza per i drammi continentali e il rischio di scatenare una nuova guerra. In particolare, grazie al sostegno del Congresso a maggioranza repubblicana che almeno inizialmente ne rispetterebbe la volontà, l'isolazionista Trump abbandonerebbe l'Europa al suo destino. Sebbene ben disposto nei confronti di Putin, l'imprenditore newyorkese potrebbe posticipare il momento dello scontro aperto ma non riuscirebbe a porre fine alla nuova "guerra fredda" con Mosca, poiché saranno gli apparati (Pentagono, Cia, dipartimento di Stato) ad incalzare senza requie l'Orso russo. Mentre Trump si disinteresserebbe pressoché totalmente dell'emergenza migranti e della dissoluzione dello spazio comunitario. Discorso simile per il senatore texano Ted Cruz, che adotterebbe un atteggiamento smaccatamente attendista. Rifiutando ogni coinvolgimento negli affari continentali e limitandosi a creare distanza tra Germania e Russia.

Se invece alla Casa Bianca ascendessero Hillary Clinton o il senatore della Florida Marco Rubio, l'Europa potrebbe vivere una fase di accresciuto attrito con la Russia. Se non addirittura giungere ad un passo dalla guerra. Specie se, in linea con il rispettivo interventismo liberal o neoconservatore, Clinton o Rubio decidessero di fornire armamenti all'Ucraina. Potendo contare al riguardo sul favore del Congresso e degli apparati, questi provocherebbero l'inevitabile reazione di Putin. Inoltre, puntando sugli Stati dell'Europa orientale in funzione anti-russa e anti-tedesca, entrambi potrebbero accettare la partizione del continente in zone di influenza e la fine della libera circolazione di uomini e merci.

Con effetti potenzialmente devastanti per la tenuta del Vecchio Continente. Perché, se gli Stati membri non sapranno concertare dall'interno il rilancio del progetto comunitario, è ormai chiaro che non sarà un bonario cavaliere americano a salvare l'Europa.

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