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Non è troppo tardi per fare giustizia

Fra le decine di migliaia di bimbi collocati in istituti fra gli anni '20 e gli anni '60, molti serbano tristi ricordi Keystone

Strappati alle loro famiglie per essere collocati in istituti o dati in affidamento: è il destino di oltre 100'000 bimbi nati tra gli anni ’20 e gli anni ’60.

Questo contenuto è stato pubblicato il 15 febbraio 2005 - 15:53

A distanza di anni, le vittime rompono il silenzio e chiedono giustizia per i torti e i maltrattamenti subiti. Un’analisi storica a livello nazionale potrebbe forse ridare loro un po’ di serenità.

«Mio padre ha lasciato mia madre sola a crescere sei figli. La nostra era una famiglia felice, ma attanagliata dai problemi economici. Invece di aiutarci finanziariamente, lo Stato ha preferito dare in affidamento me e i miei fratelli o ci ha rinchiusi, separandoci, in orfanotrofio».

Comincia così la storia che ci ha raccontato Jeanne Cevey, strappata alla famiglia all’età di due anni e mezzo e cresciuta, fra violenze e umiliazioni, presso una famiglia di viticoltori e poi in un istituto per l’infanzia del Canton Vaud.

Come lei, decine di migliaia di altri bambini - considerati di «seconda categoria» solo perché figli di madri sole o di coppie non sposate oppure in famiglie disagiate – hanno subito la stessa sorte.

Sistema sociale lacunoso

Oggi, la politica familiare e le assicurazioni sociali elvetiche garantiscono ai bambini una particolare protezione: assegni famigliari, rendite per orfani, convenzioni sui diritti dell’infanzia, tribunali dei minori, educatori specializzati, sono solo alcuni esempi di questa presa di coscienza.

Fino ad alcuni decenni orsono però, il sistema sociale elvetico era ancora ai primordi.

Le famiglie indigenti dovevano fare affidamento su aiuti privati o sullo scarso sostegno fornito dai Comuni. Nella società moralista di quegli anni, che a fatica tollerava la povertà, le famiglie con problemi economici non erano considerate adatte a crescere i figli.

Ragion per cui, non di rado, le autorità preferivano allontanare i bambini da casa piuttosto che fornire un aiuto diretto ai genitori.

Storie di ordinario dolore

Presso le famiglie affidatarie, così come negli istituti, i bambini erano spesso costretti a vivere in condizioni raccapriccianti.

«Per anni in istituto ci hanno servito cibi avariati. Chi osava lamentarsi veniva punito, picchiato. Quando mi sono ammalata seriamente al fegato, nessuno voleva credermi e mi sono state negate le cure necessarie», racconta con amarezza Jeanne Cevey.

La situazione si è protratta per decenni, senza che lo Stato intervenisse a far cambiare le cose. Gran parte delle vittime hanno preferito tacere sul proprio passato, forse per paura, per pudore o per mancanza di fiducia nelle istituzioni.

Tra le figure più note che hanno osato rompere la legge del silenzio, bisogna ricordare Louisette Buchard, morta lo scorso anno. Si era battuta per anni, arrivando più volte allo sciopero della fame, affinché le sofferenze subite in orfanotrofio da lei e da tanti altri fossero finalmente riconosciute.

Selezione arbitraria della sofferenza

Scosso dalla testimonianza della signora Buchard, l’ex-consigliere nazionale democristiano Jean-Charles Simon presenta nel 1999 una mozione parlamentare dove chiede l’istituzione di una commissione indipendente per appurare i fatti.

La sua domanda viene però archiviata dal Consiglio federale, che adduce l’impossibilità per la Confederazione di agire in un settore, quello sociale, di competenza prevalentemente cantonale e comunale.

Una giustificazione «di comodo» che non convinse Jean-Charles Simon.

La storia insegna

La Confederazione non è rimasta totalmente insensibile alla problematica e, in collaborazione con il Canton Vaud, ha ordinato una raccolta di dati preliminare in alcuni Cantoni della Svizzera francese.

Il rapporto che ne risulterà le servirà a decidere se lanciare a livello nazionale una ricerca storica approfondita sul tema. La decisione dovrebbe essere presa entro il mese di marzo.

Se lo studio verrà effettuato, le vittime potranno essere riconosciute ufficialmente come tali. Levare questo tabù potrà forse aiutarle a ritrovare un po’ di serenità. Ma basterà ad alleviare il loro dramma?

«No. Ritengo che lo Stato, oltre a riconoscere l’errore, debba anche risarcirmi. A causa dei maltrattamenti subiti in istituto soffro di problemi cronici alla salute. Mi ritrovo inoltre in condizioni economiche precarie perché il mio Cantone si è rifiutato di pagarmi studi adeguati. Noi bimbi dell’istituto potevamo al massimo ambire a servire in casa dei ricchi», si rammarica Jeanne Cevey.

swissinfo, Anna Passera

In breve

La Confederazione potrebbe lanciare prossimamente un programma di ricerca storica nazionale per far luce sugli oltre 100'000 casi di bambini strappati alle loro famiglie fra gli anni ’20 e gli anni ’60 per essere collocati in istituti o dati in affidamento.

Fra il 1926 e il 1973, anche l’opera d’assistenza «Bambini della strada» della Pro Juventute tolse oltre 600 bimbi jenisch ai loro genitori.

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