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Rinunciare alla propria bandiera cantonale? La maggior parte degli svizzeri non sembra essere particolarmente incline a voler cambiare la geografia istituzionale del paese. URS FLUEELER

A scadenze regolari, in Svizzera si torna a parlare di ritracciare i confini interni, creando cantoni più grandi. E altrettanto regolarmente questi progetti restano lettera morta o nel migliore dei casi naufragano in votazione popolare. Gli svizzeri sono infatti molto attaccati a queste vecchie frontiere. Nel bene o nel male.

Questo contenuto è stato pubblicato il 28 gennaio 2015 - 11:00
swissinfo.ch

Anche Napoleone dovette rassegnarsi e alzare bandiera bianca. Dopo la proclamazione della Repubblica elveticaLink esterno nel 1798, la Francia – le cui truppe avevano appena invaso il paese – decise per mano del suo commissario governativo di ridisegnare le frontiere di alcuni cantoni, in particolare quelli ostili alla rivoluzione. «Non siete contenti? Bene, l’avete voluto voi. Adesso i vostri quattro cantoni li fondiamo in uno solo, così riduciamo un po’ la vostra influenza», si disse probabilmente Jean-Jacques Rapinat quando decretò l’istituzione del cantone Waldstätten, che raggruppava Uri, Svitto, Untervaldo e Zugo.

Lo stesso successe nella Svizzera orientale: Glarona, Sargans e Toggenburgo superiore furono riuniti nel canton Linth, mentre Appenzello, San Gallo, Rheintal e Toggenburgo inferiore diventarono il canton Säntis. Il tornado geopolitico durò però poco. L’esperienza di applicare alla Svizzera il modello centralista e unitario francese si rivelò un fiasco. «Noi sangallesi come gli appenzellesi? E oltretutto governati da Berna? Sia mai, rivogliamo la nostra sovranità!», e via moschettate a chi era favorevole al nuovo ordine. Di fronte a una situazione divenuta insanabile, nel 1803 Napoleone si risolse a dare al paese una nuova Costituzione di stampo maggiormente federalistico (Atto di mediazione) e a riportare le frontiere cantonali laddove erano prima.

«La Svizzera non assomiglia ad alcun altro Stato sia per gli eventi che vi si sono succeduti nei secoli, sia per la situazione geografica e topografica, sia per le lingue differenti e le diverse confessioni religiose e l’estrema differenza di costumi che esiste tra le sue diverse parti. La Natura ha fatto del vostro paese uno Stato federale; volerla vincere non è da uomo saggio», si legge nella lettera che Napoleone scrisse ai delegati svizzeri convocati a Parigi in quell’anno.

Una stabilità eccezionale

Dopo l’Atto di mediazioneLink esterno, i confini nazionali e cantonali subirono ancora qualche modifica nel 1815 col congresso di Vienna. Da allora, con l’eccezione della costituzione del canton Giura nel 1979, sostanzialmente non è cambiato più nulla.

Ciò non vuol dire che nessuno ci abbia provato. O che a scadenze regolari non vengano presentati progetti più o meno utopici per ridisegnare la carta della Svizzera, in generale riducendo drasticamente il numero dei cantoni.

In una democrazia diretta come quella svizzera, la decisione di fondere due o più cantoni spetta al popolo e non può essere imposta dall’alto, come ad esempio in Francia, che ha appena ridotto da 22 a 13 il numero di regioni. Tutte le esperienze passate dimostrano però che l’idea di creare dei super-cantoni ha forti chance di rimanere allo stadio di pio desiderio.

Appena qualche mese fa, nel settembre 2014, i cittadini di Basilea Città e Basilea Campagna hanno ad esempio votato su un progetto di fusione. Come era già accaduto nel 1969, Basilea Città ha approvato la proposta (55% di sì), mentre a Basilea Campagna ha ampiamente prevalso il no (68%).

Un sistema superato?

Secondo molti osservatori, questo sistema di 26 cantoni ha però fatto un po’ il suo tempo. Molti cantoni sarebbero troppo piccoli per affrontare le sfide della globalizzazione e risolvere tutta una serie di problemi che trascendono le frontiere cantonali.

A fine novembre, l’ex parlamentare socialista giurassiano Jean-Claude Rennwald ha pubblicato un libro in cui rilancia l’idea di un grande cantone che riunirebbe Neuchâtel, Giura e Giura bernese. «’Sempre più grande’ non è un obiettivo in sé. Tuttavia, in un mondo formato da grandi insiemi non ci si può più comportare come nani», si legge nel contributo di Rennwald pubblicato dalla rivista L’Hebdo.

"Il federalismo attuale non corrisponde più agli spazi di vita".

François Cherix

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Inoltre, il federalismo attuale «non corrisponde più agli spazi di vita, diventati più grandi», osserva François CherixLink esterno, che nel 2002 era stato tra i principali promotori dell’iniziativa per una fusione tra Ginevra e Vaud (spazzata via nelle urne da praticamente quattro elettori su cinque). Sempre più spesso si vive in un cantone, si lavora in un altro e magari si trascorre il tempo libero in un terzo.

Perché avere 26 polizie cantonali quando la criminalità se ne infischia delle frontiere? Perché di fronte alla continua lievitazione dei costi della sanità continuare a pianificare a livello cantonale e non supra-regionale? Perché per armonizzare l’istruzione pubblica ci sono voluti anni e malgrado questa armonizzazione ancora oggi, quando si trasloca in un altro cantone, bisogna armarsi di pazienza per capire gli arcani del nuovo sistema? Senza parlare poi dell’inizio dell’anno scolastico, delle vacanze, degli orari… che naturalmente variano non solo da un cantone all’altro, ma a volte addirittura da comune a comune.

«Quando si chiede ai cittadini se è utile avere due amministrazioni oppure due sistemi scolastici diversi, dicono ‘no, è totalmente inutile, ci complica la vita’. Poi, però, quando si tocca l’aspetto identitario non sono per nulla pronti a cambiare sistema. È un po’ paradossale», osserva Cherix.

Lavoro titanico

Per Nicolas Schmitt, professore all’Istituto del federalismo di FriburgoLink esterno, è un bene che sia così. «Per uno Stato federale è un grande vantaggio disporre di Stati membri con frontiere definitive, che non sono continuamente rimesse in discussione».

Una fusione comporterebbe inoltre problemi tecnici e giuridici enormi: «I cantoni hanno molte competenze. Con il Canada, la Svizzera è probabilmente la federazione più decentralizzata al mondo. Armonizzare i sistemi di gestione delle acque, delle foreste, lo statuto dei funzionari o la giurisprudenza rappresenta un lavoro titanico», sottolinea Schmitt.

Il processo di armonizzazione è comunque ineluttabile, ribatte da parte sua François Cherix. L’aumento esponenziale dei concordati intercantonali, uno degli strumenti privilegiati della collaborazione tra cantoni, è lo specchio di questa evoluzione: oggi sono più di 800 e la maggior parte è stata sottoscritta negli ultimi vent’anni. Questi trattati sono stati conclusi nei settori più disparati: dall’esecuzione delle pene alle scuole universitarie professionali, passando per gli appalti pubblici o la lotta alla violenza nello sport.

«È una forma di centralizzazione forte ma nascosta, che crea un livello di potere intermedio tra quello della Confederazione e quello dei cantoni. Di fatto, si formano nuove regioni più grandi, senza che la gente se ne renda conto. Il risultato è che i cantoni si svuotano della loro sostanza», afferma Cherix. «Alla fine i 26 cantoni attuali rimarranno, ma non saranno più i cantoni che conosciamo. Faranno del federalismo d’esecuzione, saranno 26 distretti che applicano decisioni prese altrove. Dal momento in cui però continueranno ad esistere una bandiera e una fanfara cantonale, tutti continueranno ad essere felici e contenti».

"Toccare gli equilibri istituzionali significherebbe aprire il vaso di Pandora"

Nicolas Schmitt

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L’identità prima di tutto

Nicolas Schmitt ammette che le cooperazioni sono più che mai necessarie. L’aspetto centrale è però proprio quello identitario. «Bisogna distinguere tra identità e competenze. Il cittadino qualunque non sa esattamente quali sono le competenze del suo cantone e in fin dei conti non gliene importa granché. Per lui è importante sapere di essere appenzellese, sangallese o vodese. Soprattutto in un’epoca di globalizzazione come la nostra».

Gli attuali 26 cantoni rappresentano la suddivisione ideale del paese in piccoli territori che «se ne infischiano delle divisioni etniche». Modificare questa griglia geografica significherebbe cambiare equilibri secolari.

«Si arriverebbe a un’opposizione delle lingue, un po’ come in Iraq, con i sunniti, gli sciiti e i curdi – sottolinea Schmitt. Il Vallese potrebbe ad esempio confluire in un cantone della Svizzera francese. Cosa ne sarebbe però dell’Alto Vallese germanofono? In un super-cantone francofono, diventerebbe una sorta di riserva di indiani. Gli alto vallesani direbbero ‘non vogliamo assolutamente farne parte’ e raggiungerebbero Berna. Oppure nella Svizzera tedesca si potrebbe riunire il nord, ricco e protestante, e il centro, meno ricco e cattolico. Si ricreerebbe così la Svizzera della guerra del SonderbundLink esterno [ndr: conflitto del 1847 tra 7 cantoni cattolici e conservatori e 15 cantoni liberali, conclusosi con la vittoria di questi ultimi]… La Svizzera è un paese di un’estrema diversità, forse il paese al mondo con la maggiore diversità su un territorio così piccolo. Toccare questi equilibri istituzionali significherebbe aprire il vaso di Pandora».

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