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A che punto siamo con l’Ilva (tenetevi forte)

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Hypercorsivo di Massimo Donelli

Questo contenuto è stato pubblicato il 29 febbraio 2016 - 18:44

Lo confesso: mi è venuto il mal di testa.

Accidenti a me quando ho deciso di capire a che punto siamo con l'IlvaLink esterno!

Scartoffie.

Montagne di scartoffie.

Parole.

Fiumi di parole.

E nebbia.

Un gigantesco banco di nebbia.

Che tutto avvolge e stravolge, rendendo difficile raggiungere il nocciolo duro della verità.

Ma, leggi di qua, studia di là, eccomi a voi con qualche piccola certezza.

Quanto basta, insomma, per capire che, come al solito, ci stanno prendendo in giro.

Eccome.

Prima di tutto, un po' di storia.

L'Ilva è un impianto siderurgicoLink esterno esteso su 15 milioni di metri quadri, una superficie doppia rispetto alla confinante e bellissima città di TarantoLink esterno, 192 mila abitanti sul Mar IonioLink esterno.

I dipendenti, che hanno un'età media di 39 anni, sono 16 mila 200.

Ai quali vanno aggiunti tra 8 e 10 mila lavoratori impiegati nelle imprese dell'indottoLink esterno.

Il totale, quindi, è di 24-26 mila persone.

Cui corrispondono altrettante famiglie.

Chiaro no?

Più o meno la metà dei tarantini campa grazie al bestione.

Ilva=stipendio fisso=sicurezza=futuro.

Sembrava così, quando la storia è cominciataLink esterno (1961) e l'azienda, che apparteneva all'IRILink esterno, si chiamava FinsiderLink esterno.

E così ha continuato a sembrare per tutti gli anni della proprietà pubblica, durante i quali l'IRI e i sindacati, sorvolando sui terribili danni ambientaliLink esterno, facevano finta di farsi la guerra, ma, in realtà, andavano felicemente a braccetto.

Sì: a braccetto verso il crac.

Infatti, quando, nel 1994, Romano ProdiLink esterno, presidente dell'IRI, ha ceduto la Finsider a Emilio RivaLink esterno per 1.649 miliardi di vecchie lire, il compratore si è dovuto accollare ben 1.500 miliardi di debiti.

E, ovviamente, si è dato da fare per recuperare in fretta l'investimento.

C'è riuscito?

Sì.

Alla grande.

Ribattezzata Ilva (è l'antico nome dell'Isola d'ElbaLink esterno, che sul ferro ha sviluppato la propria economia), l'azienda non solo è stata risanata nei conti, ma ha addirittura conquistato il primato europeo dell'acciaio.

Tutto a posto, quindi?

Macchè.

Nel 2012 è scoppiato il bubbone.

E che bubbone!

I Riva (e non solo loro) sono finiti sotto inchiesta giudiziaria per disastro ambientale.

Hanno ereditato dallo Stato una macchina di morte e, secondo l'accusa, non si sono minimamente preoccupati di renderla innocua.

L'Ilva, infatti, nel corso degli anni ha prodotto non solo acciaio, ma anche tumori.

Micidiali.

Per gli adultiLink esterno e per i bambiniLink esterno.

In 13 anni sarebbe costata la vita a 386 personeLink esterno!

Di più.

I Riva sono stati accusati di aver instaurato in azienda una dirigenza-ombraLink esterno.

Anzi: una moderna GestapoLink esterno.

Che ha imposto il pugno di ferro, arrivando a creare un lager punitivo per i lavoratori indisciplinati, la famigerata palazzina LafLink esterno: pareti spoglie, scrivanie vuote, nulla da fare per tutta la durata del turno.

Inquinatori, quindi.

E malvagi.

Così dicono le carte dell'inchiesta.

Che, per loro, ha rappresentato l'inizio della fine.

Avevano sventato il crac, sono finiti nel tritacarne.

Dopo l'intervento della magistratura, infatti, nel giro di un paio d'anni è successo di tutto.

In sintesi…

L'Ilva è stata commissariataLink esterno.

Emilio Riva è mortoLink esterno.

Suo figlio Fabio, per tre anni latitante, si è costituito a giugno 2015 ed è l'unico imputato in galeraLink esterno tra i 47 (uno è Nichi VendolaLink esterno) che dovranno affrontare il processo chiamato Ambiente svendutoLink esterno, aperto e subito rinviato per pasticci proceduraliLink esterno.

Avete capito, no?

C'è stato uno tsunamiLink esterno politico-giudiziario-mediatico.

Dopo il quale tutto è cambiato.

Tranne un… piccolo dettaglio: il bestione non cessa di far danni alla salute.

Per esempio, con la sinistra area GRF (Gestione rottami ferrosi), grande oltre 5 ettari, ossia quanto 53 campi di calcio messi insieme.

Sequestrata dalla magistratura nel 2012, riaperta dal governo, la GRF è super-inquinanteLink esterno.

E l'ultimo report dell'autorevolissimo Politecnico di TorinoLink esterno, consegnato dall'azienda al ministro dell'Ambiente, Gianluca GallettiLink esterno (che non ha ritenuto di divulgarloLink esterno), parla chiaro: la diossina registrata nel quartiere TamburiLink esterno, adiacente allo stabilimento, ha valoriLink esterno quaranta volte superiori a quelli ritenuti accettabili.

Valori, per capirci, registrati in Italia solo dopo il disastro di SevesoLink esterno.

L'allarme, emerso pochi giorni fa grazie agli ambientalisti di PeacelinkLink esterno, riaccende d'improvviso i riflettori sulla storia dell'Ilva.

Che, come spesso accade in Italia, dopo paginate e paginate di giornali, era stata inghiottita dall'oblio.

Nessuno ne parlava più, tranne qualche trafiletto qua e là nella sezione economia.

Ma tra pochissimo, vedrete, inquinamento a parte (si fa per dire…), la faccenda tornerà alla ribalta.

Perché non è chiaro che cosa sarà deciso nei prossimi mesiLink esterno.

È invece sicuro che la scelta farà, comunque, rumore.

Chiudere per evitare che muoiano altri uomini, donne, bambini?

O tenere aperto per non mettere sul lastrico migliaia di famiglie?

A quale prezzo si possono garantire lavoro e salute insieme?

E chi è disposto a pagarlo?

Dopo un bel po' di colpi al cerchio e altrettanti alla botte, fin qui si è deciso di bloccare (per finta) una parte dello stabilimento; fare qualche (marginale) intervento ecologico; tirar via la fabbrica ai proprietari inquisiti; rimetterla provvisoriamente nelle mani dello Stato; venderla "entro 36 mesi" ma con l'obbligo, per il compratore, di risanarla totalmente.

Nominati i commissari ad hoc

… stilati tonitruanti comunicati stampa…

… eseguita alla perfezione la solita propaganda digitale…

… oggi siamo, italianamente, nella palta.

L'Ilva perde tra i 40 e i 50 milioni di euro al mese.Link esterno

E mentre Palazzo Chigi si è impegnato fin qui a garantire 1,5 miliardi di euro, ufficialmente per il risanamento, l'Unione europea non crede ai buoni propositi ambientalistici e minaccia sfracelli contro gli aiuti di StatoLink esterno.

Non basta.

Il mercato dell'acciaio ha visto un drammatico calo della domandaLink esterno.

E il commissariamento è già stato prorogatoLink esterno.

Mica è finita…

La famiglia Riva si sente ingiustamente espropriata.

Perciò rivuole indietro l'aziendaLink esterno.

Il caosLink esterno, insomma.

Tanto che, se non si trattasse di una tragedia, ci sarebbe perfino da ridere.

Soprattutto pensando al fatto che l'Italia ha chiesto alla Svizzera di prelevare 1,2 miliardiLink esterno di euro dai conti elvetici dei Riva e spedirli a Roma.

Motivazione: sono guadagni illeciti.

Risposta degli svizzeriLink esterno: potremmo avere la sentenza definitiva che lo attesta?

Sì, avete indovinato: la sentenza, naturalmente, non c'è.

Così il malloppo ha generato una situazione schizofrenica.

La Svizzera lo tiene ben chiuso in un caveauLink esterno.

L'Italia lo dà già per acquisito e l'ha computato nel calcolo dei costi del risanamento: 3,4 miliardi di euro, che scenderebbe a 2,2 se, appunto, rientrasse il tesoro dei Riva.

Se…

Di se e di ma questa storia è piena.

Tutti si sono infranti contro una semplice verità: o si sbaracca tutto o si risana tutto.

Nel primo caso si apre una voragine sociale.

Nel secondo si apre una voragine finanziaria, l'ennesima, nei conti, malconci, dello Stato italiano.

Che, appunto, si è preso non settimane, non mesi, ma addirittura anni per risolvere la faccenda.

Peccato che dall'ottimistico postLink esterno di Matteo RenziLink esterno (3 marzo 2015) non si siano fatti progressi di sorta.

E che l'Ilva, più che mai, sia fuorilegge.

Perché, come dicevamo, inquina ancora (guardateLink esterno).

E perché chi la governa ha ottenuto un incostituzionale salvacondotto giudiziarioLink esterno.

Proprio così, per quanto possa sembrare inaudito.

I commissari nominati da Palazzo Chigi non corrono rischi penali nell'esercizio delle loro funzioni.

E siccome di Ilva, dentroLink esterno e fuori la fabbrica, si continua a morire, con chi se la possono prendere le povere vittime del bestione?

Con nessuno.

Riassumendo…

La fabbrica, che doveva chiudere perché pericolosa, è aperta.

Duello italo-svizzero a parte, mancano comunque i fondi per renderla eco-compatibile.

E lo Stato, per non creare nuovi disoccupati, sta buttando quattrini nella… fornace.

Fino a quando?

Entro il 15 aprile dovranno avere una risposta le 29 aziende che si sono messe in fila per rilevare il bestioneLink esterno.

A quali condizioni e quale prezzo siano disposti a pagare, non si sa.

Una cosa è certa: la partita è, letteralmente, cruciale.

E non solo per TarantoLink esterno, ma per l'Italia.

Nel frattempo la linea del governo (Galletti docetLink esterno) è quella dell'antica canzoncina: "

Contenuto esterno

".

E chi non la pensa così, è, ovviamente, un gufo…

Segui @massimodonelliLink esterno

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