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Sett'antanni, portati come?

pluto ansa

di Aldo Sofia

Questo contenuto è stato pubblicato il 02 giugno 2016 - 18:07

Ma come li porta, la Repubblica, questi 70 anni? Bene, così così, o decisamente male? È come chiedersi come sta oggi l'Italia. Non è tempo di ottimismo, e lo stato d'animo generale scivola facilmente nel pessimismo. Una quantità sufficiente di studi, sondaggi, ricerche certifica che lo stato d'animo del Paese guarda al presente, e soprattutto al futuro, con una massiccia dote di preoccupazione.

Nemmeno l'ossessivo slogan renziano dell' "Italia che è tornata e rinasce" può schiarire le tinte fosche. Tra le quali è anche difficile, col tempo e le generazioni che passano, ricordare che il referendum del 2 giugno 1946 cancellò una monarchia più che compromessa e cedevole nei confronti di Mussolini, delle sue guerre in alleanza col nazismo, e dei crimini fascisti.

Così, nelle angosce nazionali odierne, nemmeno basta ricordare che i sette decenni ormai alle spalle furono anche quelli della democratizzazione, della ricostruzione, della partecipazione alla nascita dell'Europa comunitaria, e del miracolo economico. Insomma, per placare gli animi non basta nemmeno evocare il fatto che quest'Italia repubblicana insieme ai padri fondatori dell'odierna UE ha pur sempre partecipato ia più lungo periodo di pace e di libertà vissuto dal vecchio continente.

No, sparisce la memoria collettiva, l'onestà della storia, i bilanci ragionati, e si preferisce limitarsi allo specchio dell'oggi. E cosa ci racconta questa immagine odierna, non liscia ma spesso contorta del presente? Di un paese lontano, lontanissimo dal messaggio che irradiava quel natale della patria repubblicana. Capace - dopo le grandi lacerazioni del ventennio, le profonde ferite della guerra civile, le radicali rivalità personali e politiche - di produrre una Costituzione che nacque dalla indispensabile e virtuosa collaborazione fra due schieramenti apparentemente inconciliabili: quello democristiano che guardava all'America, e quello comunista che amava Stalin.

Settant'anni dopo, la stessa Costituzione nata da un patto di responsabilità è invece fonte di una mischia politica furibonda. In un'Italia in cui lo scontro politico si esprime più che altro con toni cori e insulti da stadio, la riforma che si andrà a votare in autunno per cambiare o meno la Magna Charta sulle leggi elettorali non è sottoposta a un aspro ma giudizioso confronto, bensì a una sorta di guerra fra bande, dove i torni e il sarcasmo del premier fanno a gara con gli oppositori "a prescindere". E con i cittadini che si allontanano - insofferenti , indifferenti o rabbiosi - dai veleni che emanano i palazzi del potere

Una Costituzione non è scritta sulla pietra, si può o si deve ammodernare. Ma farlo scatenando le proprie truppe in una baruffa dove si urla su tutto ma ci si scontra sul nulla, dove si deve abbattere il rivale e non discutere l'essenziale, è qualcosa che scuote l'essenza stessa della settantenne repubblica. Che si volle conciliatrice, e non fonte di divisione. "Pacata euforia", ha opportunamente scritto qualcuno ricordando i giorni in cui seppur per il rotto della cuffia prevalse la scelta repubblicana. Oggi, nessuna euforia. E soprattutto nessuna pacatezza.

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