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La Firenze degli Svizzeri

Il Caffè Gilli, storico ritrovo cittadino, fondato nel 1733 da una famiglia svizzera gilli.it

Una presenza importante, di lunga data ma ancora poco nota: è quella della comunità elvetica a Firenze, le cui vicende sono state ripercorse in un volume presentato a inizio novembre.

Questo contenuto è stato pubblicato il 17 novembre 2010 - 11:49
Andrea Clementi, swissinfo.ch

Arte, cultura, economia: le tracce svizzere nel capoluogo toscano sono molte. Bisognava però trovarle e analizzarle, ed è ciò che ha fatto una trentina di specialisti di settori diversi, i cui lavori sono raccolti nel volume Svizzeri a Firenze dal Cinquecento a oggi, pubblicato dalla società editrice Ticino Management (che già si è occupata dei contributi rossocrociati in altre città della Penisola).

Il luogo in cui è avvenuta la presentazione del volume – Palazzo Vecchio – offre già il primo elemento, anche dal punto di vista cronologico, legato al contributo svizzero.

Infatti, sul lato nord dell'edificio si trova lo stemma della dogana di Firenze, dove dal XVI al XVIII secolo lavorarono molti facchini provenienti dall'attuale Canton Ticino, segnatamente dalle Centovalli e dalle Terre di Pedemonte.

Spiega la storica svizzera Renata Broggini: «La dogana di Firenze non voleva che tra i facchini suoi impiegati figurasse personale locale: l'essere forestiero era una condizione necessaria per poter accedere al mestiere, molto verosimilmente perché si riteneva che maggiori garanzie di sicurezza e di rispetto della legalità provenissero da chi non poteva vantare contatti e relazioni potenzialmente a rischio».

Operai e artisti

Ed è proprio all'esempio dei facchini ticinesi che ha fatto riferimento l'ambasciatore svizzero a Roma, Bernardino Regazzoni, ricordando appunto – all'interno della presenza svizzera – «il ruolo fondamentale della gente semplice».

Dal canto suo, Cristina Acidini – soprintendente per il patrimonio storico e artistico della città di Firenze – ha sottolineato il contributo elvetico all'arte locale, citando in particolare «tre grandi fiori candidi». Si tratta della Sala Bianca in Palazzo Pitti, della Sala della Niobe nella Galleria degli Uffizi e del Salone delle feste nella Villa del Poggio imperiale, tutti decorati da stuccatori ticinesi – in particolare i fratelli malcantonesi Giocondo e Grato Albertolli – nel periodo compreso tra il 1776 e il 1783.

Secondo l'esperta, «i monumentali ambienti rappresentano una ventata di novità, all'insegna di un arioso gusto mitteleuropeo che portava ampiezza e chiarore nel cuore di Firenze medievale e rinascimentale». Ancora di più: «Grazie agli stuccatori ticinesi, […] la buona società poté incontrarsi, danzare, godere di esperienze museali all'interno di scenari moderni e di piglio internazionale, degni delle grandi monarchie o del potere imperiale».

Dotte discussioni nell'«Atene d'Italia»

Tra i molti intrecci tra Firenze e la Confederazione esaminati nel libro, spicca il caso del Gabinetto scientifico-letterario fondato in città dal mercante di origine ginevrina Giovan Pietro Vieusseux nel 1819.

Nato – anche grazie al sostegno della comunità svizzera residente in Toscana – come gabinetto di lettura, in cui vengono messe a disposizione del pubblico le più importanti riviste d'Europa, diventa presto «uno dei principali tramiti tra la cultura italiana e quella europea», evidenzia Maurizio Bossi, attuale direttore del Centro romantico del Gabinetto Vieusseux, che esiste tuttora nella sede di Palazzo Strozzi.

Tra i frequentatori abituali figurano Leopardi e Manzoni, e tra gli abbonati alla sua rivista vi erano Stendhal, Schopenhauer, Dostoevskij, Twain, Zola e Kipling.

Perché fondare tale istituzione proprio a Firenze? La spiegazione viene da Vieusseux stesso, nel manifesto inaugurale: «I viaggiatori, per la maggior parte certamente istruiti, prolungano più che altrove il soggiorno in Firenze, detta, a ragione l'Atene d'Italia, ove il gran numero degli scienziati, le magnifiche biblioteche, i capi d'opera […] alimentano anch'oggi l'erudita curiosità del forestiero».

Un console fiorentino

Il libro riporta anche vicende del passato recente. A partire dal 28 luglio del 1944, il console svizzero a Firenze – di famiglia elvetica, ma nato e cresciuto in città – Carlo Steinhauslin (1893-1951) si trovò a essere l'unica autorità cittadina che parlava tedesco e che come rappresentante di una nazione neutrale poteva dialogare con il comandante militare della città, il colonnello Fuchs.

Steinhauslin – già distintosi per avere salvato diversi bambini ebrei, affidati sotto falso nome a un ricovero cattolico – si impegna personalmente in un difficile sforzo di mediazione per salvare la sua amata Firenze e gli abitanti. Per esempio, si reca dall'alto ufficiale e lo convince a non fare esplodere una costruzione che priverebbe la popolazione dell'acqua potabile.

In un'altra occasione, cerca di far capire a Fuchs le sofferenze dei civili: «Lo invito a pensare un istante quale sarebbe il suo stato d'animo assistendo, senza poter far nulla, alle sofferenze dei suoi figli che la fame attanaglia; a pensare cosa sarebbe capace di fare sua moglie se si vedesse morire tra le braccia una sua creatura, perché non ha trovato il latte, unico alimento appropriato alla sua tenera età», scrive.

Il 25 aprile 1945, l'arcivescovo di Firenze dona a Steinhauslin una pergamena in cui lo definisce «meritevole della gratitudine nostra, intelligente ed operoso. La Svizzera ha in lui un fedele interprete delle sue alte concezioni sempre improntate a nobili sensi di lealtà, di umanità e di giustizia».

E lo storico Paolo Paoletti, autore del capitolo su Steinhauslin, conclude così: «Se un cardinale di Santa Romana chiesa ringrazia con queste parole un protestante nel giorno in cui l'Italia festeggia la liberazione, e lo fa solo per lui, significa che gli era davvero riconoscente».

Caffè, cappelli e cimiteri

Fin dagli anni Trenta del Settecento, è attestata l'esistenza di caffè appartenenti a svizzeri a Firenze. Da subito «e per tutto il corso dell'Ottocento la componente grigionese, e soprattutto engadinese, sarà decisamente maggioritaria», si legge.

Uno dei locali più famosi – ancora oggi uno storico ritrovo fiorentino – è infatti il Caffè Gilli, aperto nel 1733 dalla famiglia Gilli dell'alta Engadina, inizialmente denominato «bottega dei pani dolci».

Gli svizzeri si sono messi in luce anche nel settore dei cappelli di paglia fiorentini, prodotti da numerose ditte elvetiche giunte – con le necessarie conoscenze – nella capitale toscana durante l'Ottocento.

A titolo di esempio, il granduca Leopoldo II annota nelle sue memorie: «Dal 1818 al 1826 la Casa Gonin [originaria di Ginevra] trafficò di cappelli di paglia per la somma di 16 milioni di lire».

Un altro noto luogo storico di Firenze, il Cimitero degli inglesi (chiamato così per il grande numero di sepolti di quella nazionalità), fu in realtà creato dalla Chiesa evangelica riformata svizzera fiorentina, la comunità protestante più antica della città.

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Fiorentini in Svizzera

Il volume Svizzeri a Firenze si sofferma anche su chi ha compiuto – o sembra averlo fatto – il viaggio in senso inverso, spostandosi dalle rive dell'Arno alla Confederazione.

È il caso per esempio di Leonardo da Vinci, a cui è attribuito il rivellino di Locarno.

Un altro capitolo del libro è dedicato ai rifugiati fiorentini fuggiti nella Confederazione durante il periodo 1943-1945: tra questi, i cugini Riccardo e Indro Montanelli.

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