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I profughi dimenticati del campo fantasma di Shusha

Abbandonati a loro stessi, i migranti bloccati nel campo di Shusha, in Tunisia, sono costretti a mendicare sul ciglio della strada per un bicchier d'acqua. Camille Lafrance

Due anni dopo la chiusura del campo di Shusha, vicino alla frontiera libica, una sessantina di persone vegeta ancora nel deserto tunisino, in attesa di un ipotetico reinsediamento all’estero. La Svizzera offre un aiuto temporaneo ai migranti “vulnerabili”. Ma cosa ne sarà di loro ?

Questo contenuto è stato pubblicato il 15 ottobre 2015 - 11:00
Benjamin Keller, Tunisi, Medenine e Ben Guerdane, swissinfo.ch

Usman e MK hanno un sorriso stanco. Cresciuti rispettivamente in Sierra Leone e in Liberia, raccontano di essere fuggiti dal caos libico nel 2011 e di aver trovato rifugio nel campo di transito di Shusha, nel sud-est della Tunisia. Situato in una zona miliare in pieno deserto, a due passi dalla frontiera libica, il campo è stato chiuso ufficialmenteLink esterno nel giugno 2013 dall’agenzia ONU per i rifugiati (UNHCR). Molti profughi – tra cui Usman e MK – si sono però fermati qui, malgrado l’assenza di acqua ed elettricità. Ora, dopo quattro anni trascorsi in questo ambiente ostile, i due amici si sono trasferiti in un alloggio temporaneo finanziato dalla Svizzera a Médenine, a un centinaio di chilometri da Shusha.

Le storie di Usman e MK sono molto simili. Dicono di aver lasciato il loro paese d’origine a causa della guerra civile e di aver trovato rifugio in Libia, per poi essere condannati a un altro esilio, dopo la caduta di Gheddafi. Un ritorno in patria è fuori discussione, affermano senza esitazione, perché rischierebbero di far fronte a problemi politici. Ma non vogliono neppure restare in Tunisia, uno Stato che non ha una legge sull’asilo e col quale non hanno nulla in comune, neppure la lingua.

“Vogliamo una protezione internazionale e un reinsediamento in un paese terzo sicuro”, ci dice Usman seduto in un caffè di Medenine, mentre MK annuisce in silenzio. Una rivendicazione che ripetono senza sosta da ben quattro anni.

Il francese è approssimativo, ma il messaggio è chiaro: "Dove sono i diritti umani e i diritti dei rifugiati a un reinsediamento di chi è fuggito dalla Libia nel 2011? La nostra missione non finirà fintanto che il reinsediamento non sarà garantito". Camille Lafrance

All’epoca, per ovviare alla mancanza di una legge in Tunisia, l’UNHCR si era incaricato di esaminare le domande d’asilo di lavoratori stranieri arrivati dalla Libia – stimati a oltre 200mila – e che non volevano o non potevano rientrare nel loro paese d’origine per timore di ripercussioni. Sulle 4'400 richieste,  sono state accettate circa 4mila. L’UNHCR ha poi lanciato un appello internazionale per l’accoglienza di questi rifugiati, affinché la Tunisia non dovesse farsi carico da sola questa popolazione.

Più di 3'500 persone sono state reinsediate in 15 paesi terzi, in particolare Stati Uniti, Svezia, Norvegia e Germania. La Svizzera, dal canto suo, non ha accolto alcun contingente proveniente dalla Tunisia. Gli altri rifugiati si sono visti proporre dei programmi di “integrazione” in Tunisia.

Niente asilo

Usam e MK fanno parte di quei profughi la cui domanda d’asilo è stata respinta dall’UNHCR. Da allora vivono in Tunisia senza uno statuto legale. “È la situazione peggiore perché coloro che non sono stati riconosciuti come rifugiati non hanno alcun diritto né protezione. Sono abbandonati a loro stessi”, indica Anais Elbassil, responsabile di Terre d’asile TunisieLink esterno, un’ONG che si batte per un riconoscimento delle questioni migratorie da parte della società civile tunisina. Il paese sta elaborando una legge sull’asilo ad hoc, ma la sua adozione non è all’ordine del giorno.

In attesa, le autorità tunisine chiudono gli occhi, a condizione di mantenere un profilo basso. Il 1° settembre, nove migranti di Shusha provenienti dall’Africa subsahariana sono stati portati dalla polizia alla frontiera algerina per essere espulsi. Erano stati arrestati una settimana prima perché avevano partecipato a una manifestazione davanti alla sede dell’Ue a Tunisi, per chiedere di essere accolti nel Vecchio Continente, scrive il sito d’informazione tunisino Inkyfada. Alla fine sono riusciti a restare in Tunisia, in circostanze poco chiare.

Usman e MK non capiscono perché non sono stati riconosciuti come rifugiati. “Nessuno ci ha mai spiegato davvero perché il nostro dossier è stato respinto”, si lamenta MK. Dopo il rifiuto, i due amici si sono recati “due volte al mese, per un anno,” all’ufficio regionale dell’UNHCR a Zarzis, vicino a Médenine, per chiedere un riesame del loro caso. Invano. Sono andati anche diverse volte a Tunisi per chiedere l’intervento delle autorità. Anche in questo caso, però, senza successo.

Contattata, la sezione tunisina dell’UNHCR non ha voluto esprimersi sul campo di Shusha.

Usman e MK hanno ancora una possibilità di partire all’estero? È altamente improbabile. In caso di decisione negativa dell’UNHCR, che valuta le domande d’asilo in base alla Convenzione di Ginevra sui rifugiati del 1951, i candidati possono fare ricorso una sola volta, entro trenta giorni. Poi il dossier è chiuso, salvo l’emergere di nuovi elementi.

Ma anche per coloro che sono stati riconosciuti come rifugiati, l’UNHCR sottolinea sul suo sito internet che il reinsediamento in un paese terzo “non è un diritto”, ma “una misura eccezionale”.

Aiuto svizzero

In preda alla disperazione, a giugno Usman e MK sono stati inseriti nel programma lanciato lo scorso anno dalla Mezzaluna Rossa tunisina, col sostegno della Direzione dello sviluppo e della cooperazione (DSCLink esterno) svizzera. Il progetto offre ai profughi di Shusha un alloggio in una città del sud, così come l’accesso a cure sanitarie e 120 dinari (circa 60 franchi) al mese. Possono parteciparvi unicamente coloro che non hanno ricevuto lo statuto di rifugiato e che sono considerati “vulnerabili”: donne sole, minorenni o persone inferme.

Usman e MK soffrono di dolori alle gambe ed è per questo che sono stati ammessi al programma, assieme ad altri 12 migranti. Il budget è di 150mila franchi, ma viene utilizzato anche per finanziare l’aiuto ai sopravvissuti della del Mediterraneo, salvati dalla Tunisia.

Ora il progetto dovrebbe concludersi a fine ottobre. Cosa accadrà dunque a questi profughi, visto che non esiste una forma di aiuto analoga per i richiedenti respinti di Shusha?

“Non lo sappiamo. Alcuni ci hanno consigliato di attraversare il Mediterraneo per andare in Europa….”, risponde Usman. Sarebbero già in molti ad aver scelto questa via, inclusi dei rifugiati riconosciuti.

“Francamente non so cosa faremo, ammette Mongi Slim, coordinatore regionale della Mezzaluna Rossa tunisina a Medenine. Ci sono persone davvero malate che non possono né partire, né lavorare”.

Il sentimento d’’impotenza si percepisce sul fronte elvetico. “Abbiamo sempre dichiarato apertamente che il programma era provvisorio e lo abbiamo già prolungato una volta”, spiega Lukas Rüst, responsabile del progetto all’ambasciata svizzera in Tunisia.

Nessuna soluzione in vista

L’indomani mattina ritroviamo Usman a Ben Guerdane, una città a 30 km dalla frontiera libica che vive di contrabbando. Qui i taxi fanno direttamente il pieno dai trafficanti di benzina e sul ciglio della strada degli agenti di cambio clandestini agitano plichi di banconote. È il 19 settembre e Usman non ha più un centesimo. È diretto a Shusha. “Sono obbligato a tornare al campo a mendicare perché non ho più nulla da mangiare”. MK è invece rimasto a Médenine per essere curato alla gamba.

A Shusha vivono attualmente una sessantina di persone, stando alla Mezzaluna Rossa tunisina. Si tratta per lo più di richiedenti l’asilo respinti, come Usman e MK, che non fanno parte dei casi “vulnerabili”. Ci sono poi anche dei rifugiati che non hanno accettato di partecipare al progetto d’integrazione locale proposto dall’UNHCR, preferendo attendere un improbabile reinsediamento all’estero.

E infine ci sono anche dei profughi considerati “vulnerabili”, che potrebbero dunque teoricamente partecipare al programma elvetico, ma hanno preferito rinunciarvi. È il caso di Ibrahim, originario del Darfur, incontrato a Ben Guerdane con Usman; “Questi programmi non funzionano! Molte persone di Shusha che vi hanno partecipato sono tornate al campo o hanno deciso di attraversare il Mediterraneo per raggiungere l’Europa. In questo paese per noi non c’è futuro”.

Per sopravvivere, gli irriducibili rimasti a Shusha mendicano sulla strada che porta in Libia. “Le condizioni di vita sono disumane, afferma Kadril, profugo del Ghana. Viviamo in un limbo, con gli scorpioni”. Kadril ha una figlia, con la quale non ha più alcun contatto. Anche Usman ha perso ogni traccia della sua famiglia. Da quindici anni non ha più notizie di sua moglie e di suo figlio e non ha nessuna idea di dove si trovino. “So che sono vivi, da qualche parte”.

Aiuto svizzero in Tunisia

Quasi un quinto dei fondi stanziati dalla Svizzera per il programma a favore della transizione democratica in Tunisia servono a finanziare progetti legati a questioni migratorie e alla protezione delle persone vulnerabili. In media il budget è di più di tre milioni di franchi l’anno dal 2011.

I progetti migratori, attuati da partner locali e internazionali, spaziano dal coinvolgimento dei tunisini in Svizzera per lo sviluppo del loro paese d’origine, alla possibilità di stage in Svizzera per giovani tunisini, fino alla protezione dei profughi e alla prevenzione della migrazione irregolare.

Per quanto riguarda la protezione dei migranti, oltre mille persone sono state soccorse in mare e assistite da inizio anno nel sud della Tunisia, col sostegno elvetico. La Svizzera ha inoltre facilitato il ritorno in patria di quasi 400 profughi bloccati in Tunisia. 

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