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Quando i bambini jenisch dovevano scomparire

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Questo contenuto è stato pubblicato il 04 settembre 2017 - 13:14
tvsvizzera.it/mar con RSI (TG del 4.9.2017)

Tra il 1926 e il 1973 in Svizzera diverse centinaia di bambini jenisch furono sottratti ai loro genitori. Obiettivo: cancellare ogni traccia della loro identità e origine. Una storia poco conosciuta presentata a Venezia dalla regista italiana Valentina Pedicini.

“Dove cadono le ombre”: si intitola così il film di Valentina Pedicini in concorso nella sezione Giornate degli autori alla Mostra del Cinema di Venezia.

Il lungometraggio narra di una pagina nera della recente storia svizzera: dal 1926 al 1973 centinaia di bambini jenisch Link esterno(da 700 a un paio di migliaia a seconda delle stime) furono tolti ai loro genitori, con l’obiettivo in sostanza di ‘riprogrammarli’, rendendoli sedentari e facendone delle persone ‘utili’ per la società. Alcuni di loro furono dati in affidamento ad altre famiglie. Molti finirono però in cliniche psichiatriche o in prigione, dove subirono maltrattamenti e abusi. Molte ragazze furono anche sterilizzate di forza.

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Il programma – denominato “Bambini della strada” e messo in atto dalla fondazione Pro Juventute – fu interrotto solo nel 1973, grazie a una campagna del giornale “Schweizerischer Beobachter”. Nel 1986, il presidente della Confederazione Alphonse Egli si scusò con le persone coinvolte per il sostegno che la Confederazione aveva fornito all’opera assistenziale.

Per la sua ricostruzione, Valentina Pedicini è partita dalla storia della poetessa jenisch Mariella Mehr, la cui famiglia è stata smembrata negli anni ’50. 

«Mi hanno portata via da mia madre poco dopo la mia nascita […] I primi sei mesi di vita, li ho passati in un centro pediatrico per ritardati mentali. Lì ho vissuto le prime torture psichiatriche di un bambino jenisch […] Quando per la prima volta ho chiesto al mio tutore, il dottor Siegfried, chi fossero i miei genitori, mi ha detto […] tua madre è una puttana, tuo padre un asociale. E questo, me lo sono portato dietro per dieci anni. Finché ho capito il significato di quelle parole: i miei genitori erano zingari».

Mariella Mehr

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