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I dimenticati di Lesbo

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Reportage dall'isola greca che gioca un ruolo chiave nello scacchiere migratorio e dove opera l'ong svizzera "One Happy Family".

Questo contenuto è stato pubblicato il 06 febbraio 2022 - 14:30
Romina Vinci, RSI News

La porta d’Europa e il fallimento delle politiche migratorie dell’Unione europea: così è stata considerata l’isola di Lesbo, che per anni ha ospitato il campo profughi di Moria, il più grande del vecchio continente. È stato dato alle fiamme nel settembre 2020, e dei ventimila migranti che vi erano stipati allora, oggi ne vengono ospitati meno di duemila.

“Gli altri sono stati mandati nei centri di accoglienza di Atene e Salonicco, ma le loro condizioni rimangono precarie”, racconta Fabian Bracher, fondatore dell'organizzazione non governativa (ong) svizzera “One Happy Family”, che da anni opera a Lesbo.

Per i migranti rimasti sull’isola è stato allestito un campo governativo, “Mavrovouni”, con ferree regole da rispettare. Molti la paragonano ad una prigione a cielo aperto, a causa delle sue recinzioni e della massiccia presenza delle forze dell’ordine.

“Possono uscire solo tre volte a settimana, mentre durante i weekend e nelle festività sono obbligati a rimanere dentro”, racconta Fabian Bracher. E poi manca l’acqua corrente e l’elettricità spesso è assente. L'ong elvetica opera sul territorio offrendo servizi e dando anche opportunità di inserimento lavorativo ai migranti. 

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