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Come i robot possono cambiare l'architettura

The Gantenbein Winery Façade realizzata grazie ai robot di Gramazio e Kohler. © Gramazio & Kohler in cooperation with Bearth & Deplazes Architekten, Chur/Zurich

Tra i vigneti Gantenbein, nel canton Grigioni, si trova un piccole gioiello architettonico. Quello che da lontano potrebbe sembrare un enorme alveare è in realtà una facciata di mattoni costruita interamente da robot. Un progetto che potrebbe rappresentare il futuro dell’architettura.

Questo contenuto è stato pubblicato il 21 aprile 2014 - 11:00
Isobel Leybold-Johnson, Zurigo, swissinfo.ch

Il concetto è stato promosso da Fabio Gramazio e Matthias Kohler. I due hanno fondato il primo laboratorio di architettura robotica 2005, al Politecnico federale di Zurigo e fanno tuttora parte dei pionieri in questo campo. Di recente hanno pubblicato un libro sul ruolo dei robot, che da quanto si legge «introducono un modo radicalmente nuovo di pensare e materializzare l’architettura».

«Il messaggio più importante è che i robot cambieranno l’architettura in modo profondo, influenzeranno i processi che stanno dietro alla costruzione dell’ambiente che ci circonda», afferma Gramazio.

Lo incontriamo al campus del Politecnico dove è in corso un’esposizione dei modelli elaborati dai due ingegneri. Gramazio e Kohler non costruiscono loro stessi i robot, ma li programmano affinché riescano a fabbricare cose che sarebbero impossibili con l’unico ausilio della mano dell’uomo, spiega il professore.

Vino e alta tecnologia

Realizzato nel 2006 e presentato all’esposizione, l’ampliamento della casa vinicola Gantenbein, nei pressi del comune di Fläsch a una ventina di chilometri da Coira, è un ottimo esempio di questa nuova tecnica architettonica.

© Gramazio & Kohler in cooperation with Bearth & Deplazes Architekten, Chur/Zurich

«Abbiamo avuto la fortuna di avere clienti disposti a correre il rischio di portare avanti un simile progetto», spiega Gramazio, ricordando che avevano a disposizione solo cinque mesi prima della raccolta dell’uva.

«Anche se l’industria edile è piuttosto conservativa e complessa, ci sono occasioni che permettono di portare dei progetti da uno stadio di laboratorio alla realtà, in tempi rapidi. Quando la gente li vede, si rende conto che non è più soltanto una visione, ma è fattibile e funziona».

I frutti della loro ricerca sono stati sfruttati anche alla biennale di Venezia, nel 2008, sotto forma di un muro dalle sembianze di un serpente e in una struttura di mattoni lunga 22 metri a New York.

Un potenziale non ancora sfruttato

Particolarmente spettacolare è stata la prima installazione architettonica realizzata da robot volanti presso il centro FRAC di Orléans, in Francia.

Più vicino a casa, gli esperimenti di Gramazio e Kohler sono stati condotti per lo più nel campus del Politecnico di Zurigo, con l’aiuto di un robot industriale arancione. Attualmente stanno lavorando alla realizzazione di strutture in calcestruzzo complesse, che finora erano impossibili con metodi convenzionali.

L’uso dei primi robot risale agli anni Cinquanta e oggi alcuni settori, come quello automobilistico, sono completamente automatizzati.

Il potenziale della robotica nell’architettura non è però ancora stato pienamente riconosciuto. Anche perché queste macchine sono difficili da introdurre nei cantieri, afferma Graziano, facendo riferimento – tra l’altro – a eventuali problemi di sicurezza.

© Gramazio & Kohler

Competenze complementari

Nel settore edile, sono stati però sollevati anche timori secondo cui l’uso di robot potrebbe rimpiazzare architetti e costruttori, lasciandoli senza lavoro.

Ma Gramazio e Kohler non la vedono così e sono convinti che robot ed esseri umani hanno competenze complementari. Ciò potrebbe portare alla reintroduzione del concetto di artigianalità che è andato perduto con l’industrializzazione. Una persona non sarebbe più costretta unicamente a fare un lavoro ripetitivo, guidando una macchina, ma potrebbe sfruttare le sue conoscenze per dare informazioni aggiuntive al robot.

Gli architetti dovrebbero infatti diventare anche esperti di computer per poter usare i robot. Gramazio e Kohler, che si sono incontrati all’università di architettura negli anni Novanta, hanno sviluppato la passione per la programmazione da adolescenti.

Convinti che progettazione e programmazione hanno molte analogie – malgrado  molti pensino che sono agli antipodi – i due ingegneri hanno aperto uno studio di architettura nel 2000. Un modo, dicono, per superare questa dicotomia.

Un ruolo da pionieri

Gramazio e Kohler hanno «sviluppato un approccio interessante e hanno sviluppato progetti esteticamente belli», afferma Thomas Bock, professore di robotica e ingegneria edile all’università di Baviera, in Germania.

© Gramazio & Kohler, ETH Zurich

«Sono riusciti ad imporre la robotica come parte del programma di studi universitari di architettura», spiega dal canto suo Antoine Picon, docente di storia dell’architettura e tecnologia all’Harvard Graduate School of Design.

I robot devono essere adattati alle diverse situazioni, precisano i professori. «I robot standardizzati - come quelli dell’industria automobilistica – sono troppo pesanti e non sono a prova di polvere, sporcizia e intemperie», afferma Bock. «L’ho sperimentato sulla mia pelle nel 1984, quando ho tentato un approccio simile in Giappone con un robot industriale».

Al momento ci sono circa 150 robot da costruzione e circa 30 cantieri automatizzati in corso, soprattutto in Asia, dove vengono utilizzate tecnologie molto diverse, spiega il professore.

Progetti futuri

Secondo Picon, il modo in cui Gramazio e Kohler utilizzano i robot solleva diversi aspetti interessanti legati al design e spinge a pensare a un diverso tipo di estetica. Questa potrebbe essere la conseguenza più importante dell’introduzione di robot nell’architettura, almeno per ora, afferma Picon.

Per quanto riguarda il futuro, Gramazio e Kohler stanno progettando la costruzione di una grande struttura in legno sul tetto del campus del Politecnico. Questa dovrebbe essere composta di 45'000 singoli elementi, intrecciati in un disegno complesso.

«Abbiamo la possibilità di integrare le ricerche in corso in un prototipo su larga scala. È davvero emozionate», conclude Gramazio.

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